Guida al trapianto di midollo


INTRODUZIONE

Negli ultimi venti anni il trapianto di midollo è passato dall’essere un ultimo disperato esperimento a una terapia ben consolidata per trattare e guarire numerose malattie.
Nel 1977 erano 169 i pazienti trapiantati in tutto il mondo; nel 1993 erano 10.000 i pazienti che si erano sottoposti al trapianto in più di 250 centri in 40 nazioni.
Attualmente pazienti affetti da leucemia, linfoma, tumori solidi in stato avanzato, gravi forme di anemia aplastica, alcune forme di immunodeficienza e anomalie genetiche dispongono di un’altra possibile cura che offre innumerevoli possibilità di guarigione. Questo opuscolo curato dalla nostra associazione vuole, per quanto possibile, spiegare le più importanti problematiche e offrire risposte alle domande più frequenti riguardo il trapianto di midollo osseo.
D: Cos’è il trapianto di midollo osseo?
D: Quando un trapianto di midollo è indicato come trattamento?
D: Chi può essere donatore di midollo osseo?
D: Come viene trattato il midollo osseo per eliminare le cellule tumorali?
D: Cosa determina se l’accoppiamento donatore/ricevente avrà successo?
D: Come viene accertata la compatibilità di un donatore?
D: Come avviene la donazione di midollo osseo?
D: Come avviene il trapianto?
D: Quanto tempo passa dall’ingresso in ospedale al momento del trapianto?
D: Cosa accade dopo il trapianto?
D: Cosa si intende per effetto antileucemico del trapianto (Graft Versus Leukemia o GVL)?
D: Cosa sono i fattori di crescita e a cosa servono?
D: Vi sono effetti secondari legati al trapianto? Quali?
D: Come ci si può iscrivere alla banca dati dei donatori di midollo osseo?
D: Quali sono i progressi che si sono verificati negli ultimi anni nel campo dei trapianti di midollo?
D: Per il trapianto è possibile utilizzare anche il sangue placentare?
D: Visti i recenti progressi, è possibile utilizzare per il trapianto anche donatori non HLA-identici?
D: Che cos’é il “mini-trapianto”?


Cos’è il trapianto di midollo osseo?

Un trapianto di midollo osseo (TMO) si può considerare non come un operazione chirurgica ma come una trasfusione di midollo, non sangue, da un individuo ad un altro, o nello stesso individuo. Il midollo osseo è un tessuto spugnoso che si trova all’interno delle ossa, il cui ruolo è quello di generare i vari componenti del sangue e del sistema immunitario: globuli rossi, globuli bianchi e piastrine. Ognuna di queste cellule, ha una propria funzione vitale, che serve a mantenere il corpo sano e a scongiurare malattie. Purtroppo ognuna di queste componenti, nel corso della vita, può andare incontro ad una trasformazione maligna, in senso tumorale. Nel caso della leucemia questa trasformazione si verifica a carico dei globuli bianchi, i quali perdono ogni sistema di controllo ed iniziano a riprodursi in maniera abnorme. Una tale iperproduzione rende anormale il processo di sviluppo e di maturazione delle cellule del sangue nel midollo.
Per tale ragione si verificano i seguenti eventi:
1) riduzione della produzione dei globuli rossi, che porta ad una condizione di anemia
2) riduzione della produzione delle piastrine, che può portare ad emorragie sia interne che esterne (più frequentemente sotto pelle, come ematomi o piccole macchioline denominate petecchie)
3) riduzione della produzione e maturazione dei globuli bianchi sani, con formazione (e talora iperproduzione) di globuli bianchi immaturi (denominati “blasti”), non funzionanti: ciò comporta un elevato rischio di contrarre infezioni di vario tipo. Ovviamente, se non trattata, la leucemia porta progressivamente ad un peggioramento della salute, fino alla morte.
Gli agenti chemioterapici (farmaci antitumorali tradizionali ed altre sostanze che agiscono come modificatori della risposta biologica) possono distruggere queste cellule maligne, ma spesso sono dannosi anche per le cellule normali dell’organismo, in particolare per quelle del midollo osseo. Per questo motivo nei trattamenti antitumorali standard la dose dei farmaci viene mantenuta entro certi limiti, affinché il beneficio apportato dal trattamento stesso non venga reso vano dai danni arrecati alle cellule sane. Dosaggi troppo elevati di farmaci chemioterapici rischiano di “bruciare” totalmente il midollo osseo sano, non permettendogli più di riprendersi e conducendo perciò inesorabilmente alla morte. D’altra parte in malattie come leucemie e linfomi dosaggi molto elevati di farmaci chemioterapici aumentano considerevolmente le probabilità di guarigione definitiva, poiché, riducendo al minimo il numero delle cellule maligne eventualmente sopravvissute al trattamento, diminuiscono le probabilità di ricaduta di queste stesse malattie.
In pratica ci si trova di fronte ad una malattia potenzialmente mortale e ad una possibile terapia in grado di sconfiggere la suddetta malattia che però può, a sua volta, condurre a morte. Il trapianto di midollo osseo offre l’opportunità di superare questo paradosso, poiché permette all’organismo di tollerare la somministrazione di dosi cosiddette sovramassimali dei farmaci chemioterapici. In senso sequenziale la terapia delle leucemie, dei linfomi, ma anche di alcune neoplasie solide come il cancro della mammella, qualora sia possibile attuare un trapianto di midollo osseo, avviene nel seguente modo:
– attraverso la somministrazione di farmaci chemioterapici ed eventualmente di radiazioni ionizzanti si cerca di eliminare le cellule malate dall’organismo; tale trattamento richiede alcuni giorni (solitamente 6-8 giorni), e prende il nome di “condizionamento”. Infatti, oltre ad ottenere l’eradicazione delle cellule malate, questo trattamento serve anche a “condizionare” il tessuto del ricevente affinché quest’ultimo si prepari a ricevere e far maturare in sé le cellule del trapianto; senza questo trattamento, che comporta una temporanea soppressione del sistema immunitario del ricevente, le cellule del trapianto verrebbero rapidamente eliminate dall’organismo, e non avrebbero perciò la possibilità di ripopolare il midollo osseo, permettendo la sopravvivenza dell’organismo ricevente stesso.
– al termine di questo trattamento si procede al trapianto, ossia all’infusione in vena (esattamente come fosse una trasfusione di sangue) di cellule midollari che non sono venute a contatto con i farmaci chemioterapici o con le radiazioni di cui sopra; infatti queste cellule sono prelevate da un donatore sano (trapianto allogenico), o, nel caso dell’autotrapianto (chiamato anche trapianto autologo), vengono prelevate dal paziente in una fase precedente all’inizio del trattamento di condizionamento e congelate in azoto liquido; in tale sostanza, ad una temperatura di – 178°C, le cellule midollari vengono conservate per tutto il tempo necessario (volendo anche molti anni) e scongelate solo al momento del trapianto. Dopo l’infusione le cellule di midollo trapiantate viaggiano nel torrente sanguigno ed in breve tempo raggiungono gli spazi normalmente destinati alla loro maturazione (le cosiddette lacune ossee); qui iniziano il processo di ripopolazione, finché, piano, nel ricevente il midollo osseo torna ad occupare la sua normale estensione e riprende a funzionare normalmente, producendo in maniera equilibrata le cellule del sangue necessarie alla vita. Quando il “nuovo” midollo è accettato con successo e le cellule maligne non ritornano, il paziente ha la possibilità di una lunga sopravvivenza libera da malattia e, dopo un certo numero di anni, di considerarsi guarito. In conclusione possiamo affermare che la chemioterapia convenzionale distrugge le cellule tumorali maligne, ma al tempo stesso, data la tossicità sulle cellule sane del midollo osseo, raramente permette il raggiungimento della guarigione, poiché pone un limite al dosaggio dei farmaci antitumorali. Con il trapianto di midollo, invece, tali limiti possono venire ampiamente superati e si possono così ottenere molte guarigioni definitive. Va inoltre ricordato che nel trapianto allogenico, all’effetto benefico dei farmaci si somma un effetto antitumorale espletato dalle cellule del donatore; tale azione, denominata dagli anglosassoni Graft Versus Leukemia o GVL (ossia effetto Trapianto Verso Leucemia), contribuisce a mantenere lontano possibili recidive di malattia, non permettendo ad eventuali cellule maligne residue (sopravvissute al trattamento di condizionamento) di riprodursi e ricontaminare l’organismo del paziente.


Quando un trapianto di midollo è indicato come trattamento?

Il trapianto di midollo è un trattamento attualmente indicato per molte patologie ematologiche, oncologiche, ereditarie ed immunologiche. Esso trova sicura indicazione e viene considerato il trattamento di scelta nell’anemia aplastica severa (SAA), in alcune sindromi di immunodeficienza congenita (SCID), nella leucemia mieloide cronica (CML) ed in un sottogruppo di pazienti affetti da leucemia mieloide acuta (AML) o linfoblastica acuta (ALL) i quali abbiano specifici cromosomi (come ad esempio il cromosoma Philadelphia) o altri fattori (come ad esempio l’elevata massa tumorale alla diagnosi) noti per essere fattori prognostici negativi, ossia fattori che, quando presenti, sono spesso indice di malattia a prognosi peggiore (o perché più facilmente recidivabile o perché meno facilmente trattabile). Il trapianto di midollo è altresì sicuramente indicato in quei pazienti in cui il trattamento convenzionale di chemioterapia o radioterapia non abbia dato i risultati attesi: sono qui compresi i pazienti con leucemie acute (sia mieloidi che linfoblastiche) in cui, pur non essendo inizialmente presenti i suddetti fattori prognostici negativi, si siano verificate una o più recidive di malattia (e siano pertanto non più in prima, bensì in seconda o successiva remissione), ed i pazienti con linfomi (o altri tumori solidi) in stadio avanzato o che si siano dimostrati resistenti alle terapie convenzionali sopracitate.
Poiché il trapianto di midollo è una terapia molto potente ed intensa, che espone ad elevati rischi, non tutti i pazienti possono esservi sottoposti; tra le cose che vengono di volta in volta valutate vi sono l’età del paziente (con l’età aumentano anche i rischi, pertanto, generalmente, si cerca di non superare i 35 anni), lo stato generale di salute (in particolare la condizione di determinati organi vitali come cuore, polmoni, fegato e reni) ed i precedenti trattamenti terapeutici ricevuti. Subito dopo la diagnosi il paziente dovrebbe quindi informarsi circa le possibilità di sottoporsi ad un trapianto di midollo osseo. Ovviamente al fine di determinare la possibilità di un TMO molto importante risulta la collaborazione tra il centro ospedaliero specializzato nei trapianti ed i medici di fiducia del paziente, cioè coloro che al paziente stesso hanno posto la diagnosi o che l’hanno avuto in cura fino a quel momento; in genere costoro sono infatti i più informati sullo stato di salute fisica e psicologica del paziente.


Chi può essere donatore di midollo osseo?

ll donatore ideale è un membro compatibile della famiglia del paziente, abitualmente un fratello. Nella leucemia i gemelli omozigoti di solito non sono donatori ideali, poiché la completa identità delle caratteristiche antigieniche tissutali rende più probabile le recidive di malattia dopo il trapianto: come già anticipato in una precedente risposta, infatti, dopo il trapianto allogenico si assiste ad una certa azione del midollo trapiantato verso eventuali cellule leucemiche residue; questa azione viene però espletata proprio in quanto esistono piccole differenze antigieniche fra donatore e ricevente; viene invece totalmente a mancare laddove queste differenze non esistono, come nel caso dei gemelli omozigoti. Sfortunatamente non tutti i pazienti che necessitano di trapianto trovano un donatore in famiglia: o la mancanza di fratelli, o la non compatibilità degli eventuali fratelli esistenti (per ogni fratello vi è una probabilità di compatibilità del 25%) rendono impossibile l’effettuazione di un trapianto allogenico da donatore familiare. Per chi non dispone di un donatore compatibile familiare può essere avviata la ricerca di un donatore compatibile non familiare, oppure, in molti casi, può essere considerata l’eventualità di un autotrapianto di midollo (trapianto autologo). Nel primo caso si parla di trapianto da donatore compatibile non familiare (o, più brevemente, trapianto MUD – acronimo di “Matched Unrelated D’onor”).
Il donatore, quindi, viene ricercato all’interno di appositi registri (o banche dati) delle associazioni di donatori: attualmente la probabilità di trovare in questi registri un donatore compatibile va dal 10 % al 15 %. Nel caso del trapianto autologo, invece, il paziente agisce come donatore per se stesso: al momento del trapianto egli riceve il proprio midollo osseo che, in una fase precedente, viene prelevato, eventualmente trattato, congelato, ed infine conservato in azoto liquido (ad una temperatura di -196°C) fino al momento del suo utilizzo. Anche il sangue periferico contiene cellule staminali di tipo midollare. Queste cellule aumentano considerevolmente di numero nelle fasi di recupero post chemioterapia, ossia quando i globuli bianchi, dopo essere diminuiti come effetto della chemioterapia stessa, ritornano ai valori normali; se poi questa ripresa della produzione midollare viene stimolata attraverso la somministrazione di particolari sostanze (chiamate fattori di crescita) il numero delle cellule staminali che dal midollo osseo passa nella corrente sanguigna diviene tale da permetterne la raccolta con l’ausilio di una procedura molto semplice, chiamata leucoaferesi. Il processo attraverso il quale si stimola il midollo a liberare in periferia le cellule staminali va sotto il nome di mobilizzazione.
La procedura di leucoaferesi si avvale di un’apposita macchina che in due o tre sedute di poche ore ciascuna raccoglie dal sangue periferico cellule staminali sufficienti per l’attuazione di un trapianto di midollo; la macchina in questione si chiama separatore cellulare; essa agisce prelevando il sangue da una vena periferica e reimmettendolo in un’altra vena, solitamente a livello delle braccia.


Come viene trattato il midollo osseo per eliminare le cellule tumorali?

Una volta prelevate, le cellule del midollo osseo possono essere sottoposte, in laboratorio, ad un trattamento con degli agenti specifici. In particolare nelle seguenti situazioni: 1 – Nel caso dell’autotrapianto, qualora la malattia abbia interessato anche il midollo del paziente (come ad esempio in alcuni linfomi, in stadio avanzato) o quando la malattia interessa primitivamente il midollo e la chemioterapia di induzione non sia riuscita ad eradicarla completamente (come in alcune leucemie), le cellule maligne contaminanti possono essere rimosse attraverso tecniche molto avanzate. Queste possono prevedere sia l’utilizzo di chemioterapia in laboratorio (mafosfamide, vincristina, desametasone) sia l’utilizzo di microsfere cui vengono coniugati particolari anticorpi, detti monoclonali, specificamente diretti contro le cellule tumorali. Le microsfere, adese alle cellule tumorali, vengono poi eliminate usando dei campi magnetici, eliminando in questo modo dal midollo le cellule tumorali stesse. Queste tecniche vengono denominate procedure di “purging”, ossia di purgazione delle cellule maligne.
2 – Nel caso del trapianto allogenico, qualora sussista un rischio elevato di sviluppare la malattia del trapianto verso l’ospite (graft versus host disease); è il caso, per esempio, del trapianto aploidentico, condizione in cui il donatore non è completamente compatibile (HLA identico al ricevente). Per diminuirne l’incidenza e la gravità di tale complicanza le cellule del midollo del donatore possono venire depletate di una particolare popolazione di linfociti (i linfociti T), ritenuti i maggiori responsabili della malattia del trapianto verso l’ospite. E’ giusto però ricordare che tale procedura, sottraendo cellule che, fra l’altro, sono dotate di effetto antileucemico, eleva in maniera considerevole la possibilità che dopo il trapianto si verifichi una recidiva di malattia.


Cosa determina se l’accoppiamento donatore/ricevente avrà successo?

Il nostro sistema immunitario è costituito dalle varie classi di globuli bianchi che, circolando continuamente per tutto il corpo, lo sorvegliano e lo difendono da agenti estranei. Essi distruggono tutto quello che percepiscono come “non proprio”, ossia non appartenente al proprio organismo. E’ questa la ragione fondamentale per cui, quando il midollo osseo di un donatore viene trapiantato in un nuovo ospite, in quest’ultimo può verificarsi uno spettro di interazioni diverse. Da un lato il sistema immunitario del ricevente può rigettare le cellule del donatore, nel qual caso si parla di rigetto o insuccesso del trapianto (graft failure); d’altro lato, viceversa, le cellule del donatore possono attaccare i tessuti del ricevente, realizzando in questo modo la cosiddetta malattia del trapianto verso l’ospite (graft versus host disease o GVHD). Ovviamente fra questi due estremi dello spettro vi sono tutte le possibili situazioni intermedie, in cui l’interazione fra il “vecchio” sistema immunitario appartenente al ricevente ed il “nuovo” sistema immunitario proveniente dal donatore realizzano una convivenza dinamica, che spesso richiede molto tempo prima di stabilizzarsi in una condizione di equilibrio. In generale più è vicina la compatibilità tra il ricevente e il donatore più basso è il rischio che si verifichino le complicazioni sopracitate, riguardo alle quali vanno comunque fatte le seguenti considerazioni:
– Poiché i trattamenti chemio-radioterapici di condizionamento sopprimono il sistema immunitario del ricevente, il rigetto del trapianto (graft failure) è un evento molto raro.
– La tecnologia moderna è in grado di rimuovere o sopprimere le cellule T, maggiori responsabili della malattia del trapianto verso l’ospite (GVHD), rendendo perciò possibile, in certi casi, la realizzazione di un trapianto fra individui geneticamente non totalmente compatibili. In ogni caso, il trapianto fra individui geneticamente totalmente compatibili (HLA identici), dove attuabile, rimane il trapianto di scelta poiché comporta maggiori probabilità di riuscita.


Come viene accertata la compatibilità di un donatore?

Le cellule del midollo osseo possiedono, a livello della loro superficie, delle particolari strutture che possono riconoscere e rigettare i tessuti estranei. Queste strutture vengono chiamate antigeni leucocitari umani o, più brevemente, HLA (Human Leukocyte Antigens). A tutt’oggi sono stati identificate quattro classi di antigeni HLA: A,B,C,D. Per assicurare la miglior accettazione possibile del midollo del donatore da parte del ricevente, è condizione ideale che tutti e quattro i siti antigenici siano uguali; in particolare l’antigene di classe D viene analizzato in maniera più approfondita, poiché determina il livello di risposta immunitaria e di rigetto nei confronti dei tessuti estranei.
Per determinare la compatibilità tra donatore e ricevente è sufficiente una piccola quantità di sangue periferico di entrambi gli individui: dopo un semplice prelievo vengono eseguiti due test. Essi sono la tipizzazione HLA, ossia la determinazione molecolare degli antigeni leucocitari sopracitati, e l’esecuzione delle colture miste linfocitarie (Mixed Limphocyte Coltures o MLC), mediante le quali i linfociti del donatore e del ricevente vengono messi a contatto in vitro; dopo alcuni giorni ne viene studiata la reciproca tolleranza e reattività.
Entrambi questi test vengono dunque eseguiti in laboratorio.


Come avviene la donazione di midollo osseo.

Il midollo osseo viene prelevato mediante aspirazione dalle ossa del bacino del donatore, a livello delle creste iliache, utilizzando appositi aghi cui vengono connesse delle siringhe. Di norma questo intervento viene eseguito sotto anestesia totale, in camera operatoria, ed ha una durata di circa un’ora. Sul midollo così ottenuto viene eseguito un conteggio delle cellule nucleate, per determinarne la quantità ed assicurarsi che sia stata raggiunta la quota raccomandata per l’esecuzione del trapianto; tale quota deve essere di 2-6 x 108 cellule (200-600 milioni cellule) per kg. di peso del ricevente. La zona ove è stato prelevato il midollo potrà essere leggermente dolorante per qualche giorno e non lascia alcuna cicatrice; l’eventuale lieve fastidio potrà essere alleviato utilizzando farmaci antidolorifici, a basso dosaggio. Abitualmente i donatori vengono dimessi dall’ospedale il giorno successivo all’intervento.
La quantità di midollo prelevata, relativamente contenuta, non provoca alcun effetto negativo al donatore, che la ricostituisce nell’arco di due o tre settimane. Poichè insieme alle cellule midollari viene prelevata anche una certa quantità di sangue, spesso il donatore viene sottoposto ad uno o due salassi nelle settimane precedenti alla donazione di midollo. Il sangue così raccolto (circa 400 ml per salasso) viene conservato in appositi frigoriferi e reinfuso al donatore stesso subito dopo il prelievo di midollo (autotrasfusione); in questo modo il volume ematico del donatore viene prontamente ristabilito senza ricorrere a trasfusioni esterne, riducendo al minimo gli effetti della rapida anemizzazione dovuta all’aspirazione di midollo ed annullando completamente qualsiasi rischio infettivo ed immunologico legato a trasfusioni di sangue allogenico (cioè proveniente da donatori di sangue estranei).
Le procedure utilizzate nella donazione di sangue e di midollo sono estremamente semplici ma ovviamente rappresentano, per chi è chiamato a tali atti, un’esperienza del tutto nuova, che talora può essere fonte di paure e turbamenti. I centri specializzati nel trapianto di midollo osseo cercano di offrire tutto il supporto necessario al superamento di tali paure, nella consapevolezza che il donatore di midollo in quanto tale deve essere considerato una persona speciale.


Come avviene il trapianto?

Una volta prelevato dal donatore (o dallo stesso paziente), il midollo viene trattato attraverso dei particolari filtri per rimuovere le cellule adipose, frammenti di ossa ed altre particelle impure, e per separare le cellule che talora formano grossi aggregati. In certi casi il midollo viene ulteriormente trattato per rimuovere le cellule che possono provocare disturbi di carattere immunitario (i linfociti T).
Nel caso dell’autotrapianto il midollo viene congelato e conservato fino al momento in cui si rende necessario. Per preservare l’integrità delle cellule sottoposte a congelamento il midollo viene addizionato di una sostanza chiamata dimetilsulfossido (DMSO). Questa sostanza ha un forte odore di aglio che può essere avvertito nell’alito del paziente per uno o due giorni dopo il trapianto, poiché viene eliminata attraverso la respirazione. Invece, nel caso dell’allotrapianto il midollo, che non deve essere congelato, viene posto in apposite sacche di plastica e rapidamente portato al ricevente; a questo punto, esattamente come una semplice trasfusione di sangue, il midollo viene lentamente infuso al paziente per via endovenosa. Tale infusione richiede circa una o due ore e, generalmente, non comporta nessun particolare disturbo per il ricevente ad eccezione di una possibile lieve reazione di tipo allergico.
Qualora ciò accada il paziente può avvertire brividi, cardiopalmo e tachicardia, e può sviluppare una reazione orticarioide. Per prevenire e controllare questa possibile evenienza vengono solitamente somministrati degli anti-istaminici ed altri farmaci antiallergici. Una volta completata l’infusione, attraverso la corrente circolatoria le cellule staminali midollari trovano la propria strada all’interno delle ossa del corpo ove, giorno dopo giorno cominciano a ripopolare il midollo del paziente ed a produrre nuove cellule sane del sangue. Questo processo è chiamato attecchimento e dura dalle due alle tre settimane.


Quanto tempo passa dall’ingresso in ospedale al momento del trapianto?

Il tempo indicativo dall’ingresso in ospedale al trapianto è di circa due settimane. Idealmente, perché il trapianto possa essere considerato come una terapia appropriata, il paziente dovrebbe essere in remissione della propria malattia, anche se a tale regola possono esservi alcune eccezioni. Prima dell’ ingresso in ospedale il paziente viene sottoposto ad accertamenti volti a determinarne la condizione fisica generale e lo stato psichico, per stabilire così se esistono i presupposti necessari a permettere l’esecuzione del trapianto e le terapie correlate. In particolare il paziente viene sottoposto ad aspirazione e biopsia del midollo, esami radiologici (radiografia del torace ed eventuali indagini TAC) , esami del sangue, prove di funzionalità respiratoria, elettrocardiogramma ed angioscintigrafia miocardica (MUGA). Al fine di ridurre al massimo il rischio di sviluppare infezioni nel decorso post-trapianto, viene inoltre eseguita un’accurata indagine odontostomatologica con le terapie del caso (pulizia dei denti, cura delle carie ed eventuale avulsione dentaria); eventuali ascessi o granulomi dentari, infatti, rappresentano sempre una sicura sede di germi di vario tipo. Prima dell’ingresso, o più spesso il giorno di ingresso in ospedale, al paziente viene inserito un catetere venoso centrale, solitamente nella vena succlavia. Tale catetere, che è come un piccolo tubicino in plastica morbida e flessibile, viene posto in anestesia locale, subito sotto la clavicola, da personale specializzato. Attraverso questo catetere saranno somministrati tutti i medicamenti, compreso i chemioterapici, e saranno giornalmente eseguiti i prelievi ematici necessari, senza dover ricorrere, di volta in volta, a fastidiose e ripetute venopunture delle braccia. Dopo l’ingresso in ospedale, nei primi giorni di ricovero, il paziente viene sottoposto al trattamento chemioradioterapico di condizionamento (vedi pag.1, risposta a “che cos’è il trapianto di midollo osseo?”).
Questo trattamento ha tre scopi fondamentali e complementari:
1) eliminare le cellule cancerogene.
2) creare spazio nel midollo osseo per consentire l’espansione delle nuove cellule midollari.
3) creare le condizioni di immunosoppressione atte a prevenire il rigetto del trapianto (graft-failure). La trasfusione del nuovo midollo servirà al paziente a ripristinare la perdita di cellule dovuta alla chemioterapia ed alle radiazioni permettendone così un completo recupero della funzione emopoietica. Come tutte le chemioterapie, anche il regime di condizionamento può indurre uno stato di nausea ed eventualmente scatenare episodi di vomito. Generalmente però, questo effetto collaterale ha una durata limitata ai giorni del condizionamento stesso e viene controllato dalla somministrazione di farmaci antiemetici.
Sporadici episodi di vomito nei giorni successivi, quando presenti, sono invece da imputare alla mucosite, che, interessando l’apparato gastroenterico in toto, può realizzare uno stato infiammatorio della mucosa gastrica. Un altro effetto potenzialmente pericoloso del regime chemio-radioterapico di condizionamento è la possibilità di indurre crisi epilettiche; tale rischio è molto limitato e riguarda solo soggetti eventualmente predisposti, ma al fine di impedire che esso possa realizzarsi viene preventivamente attuata una apposita profilassi farmacologica; quest’ultima, fondata sulla somministrazione di benzodiazepine, può indurre uno stato di sonnolenza e di torpore della durata di poche ore.


Cosa accade dopo il trapianto?

Entro circa due settimane le cellule midollari trapiantate iniziano ad attecchire e a ripopolare l’organismo del paziente con cellule sane. Comunque, affinché il nuovo midollo del paziente sia sviluppato a tal punto da produrre un numero sufficiente di cellule mature, sono necessarie non meno di tre o quattro settimane.
Nelle prime due tre settimane dopo il trapianto, nell’attesa che si compia l’attecchimento e la maturazione delle nuove cellule midollari, il paziente va incontro ad uno stato di aplasia, ossia non produce cellule mature; come conseguenza della morte naturale delle cellule già presenti, si verifica una progressiva diminuzione delle cellule del sangue circolanti, che si traduce in una discesa dei valori emocromocitometrici: i globuli bianchi scendono rapidamente a zero mentre, di pari passo, le piastrine e i globuli rossi calano velocemente di numero. Per sopperire alla mancata produzione cellulare ed evitare le pericolose conseguenze che ne deriverebbero il paziente viene periodicamente trasfuso con concentrati piastrinici ed unità di globuli rossi di donatori volontari, accuratamente selezionati.
Queste cellule, che sono sottoposte a rigidissimi controlli, hanno la funzione di sostituire temporaneamente le cellule del paziente, che sono in via di maturazione. Nonostante queste trasfusioni, però, le prime due settimane dopo il trapianto sono le più difficili per il paziente, il quale, comunque, non avendo globuli bianchi, deve superare un periodo di profonda immunosoppressione (a differenza dei globuli rossi e delle piastrine, i globuli bianchi non possono essere trasfusi). Tale periodo è perciò molto delicato, soprattutto per quanto riguarda la possibilità di contrarre vari tipi di infezione, batteriche e fungine. Questo pericolo sussiste anche in regime di sterilità, in parte perché, nonostante la stessa camera sterile, risulta impossibile impedire che il paziente venga in contatto con qualche microrganismo, in parte perché molti germi sono ospiti naturali dell’organismo ed in esso sono presenti già prima che il paziente vada incontro all’immunosoppressione farmacologica.
E’ bene infatti ricordare che, se la grande maggioranza dei germi non è in grado di sviluppare infezioni in un soggetto immunocompetente (dotato cioè di un normale sistema immunitario), senza la continua sorveglianza esercitata dai globuli bianchi, maturi e funzionanti, qualunque microrganismo può moltiplicarsi rapidamente e produrre uno stato di infezione, virtualmente a carico di qualsiasi organo del corpo. Di fatto il sistema respiratorio, proprio perché, attraverso l’aria respirata, risulta in continuo contatto con l’ambiente esterno, rappresenta l’apparato a maggior rischio di sviluppare infezioni. Al fine di prevenire le infezioni, oltre al ricovero in camera sterile (ove l’aria viene continuamente fatta ricircolare in appositi filtri a flusso controllato), rigorosamente singola e con propri servizi igienici, vengono messi in atto tutti i possibili presidi di controllo ambientale e periodicamente vengono eseguiti dei tamponi di controllo a livello di varie parti della superficie corporea del paziente; Inoltre, viene somministrata una terapia antibiotica di profilassi contro i più comuni germi normalmente presenti nel corpo, soprattutto a livello gastroenterico. I pazienti sono mantenuti in isolamento e, sia il personale medico che quello infermieristico, quando entra nella stanza indossa sempre un camice sterile, una cuffia sterile, dei guanti sterili ed una mascherina protettiva. Nel caso in cui, nonostante tutto ciò, il paziente vada incontro ad un episodio infettivo (cui consegue quasi sempre la comparsa di febbre), viene subito iniziata una antibioticoterapia ad ampio spettro, composta di due o tre diversi antibiotici antibatterici somministrati endovena; in concomitanza con la risalita della febbre vengono eseguiti dei prelievi di sangue (emocolture) su cui, in laboratorio, viene ricercato il microrganismo responsabile dell’infezione; possono inoltre venire eseguite indagini supplementari, come esami colturali sulle urine o sull’espettorato, o su altri liquidi biologici, ed infine possono essere effettuate ulteriori indagini di tipo radiologico od ecografico. Talora può essere necessario ricorrere ad una terapia antifungina, utilizzando un antibiotico specifico verso questo tipo di infezioni. Una conseguenza molto frequente della chemioterapia ad alte dosi e della radioterapia di condizionamento è la mucosite, ossia l’infiammazione delle mucose dell’apparato orale e gastroenterico. Essa è dovuta alla morte delle cellule superficiali delle mucose, le cosiddette cellule epiteliali (si parla infatti di disepitelizzazione), cui segue una fase di rigenerazione e ricostituzione delle mucose stesse. La mucosite compare in genere nei giorni subito successivi al trapianto e si protrae per un periodo molto variabile; talora si manifesta in maniera molto lieve o addirittura quasi indolente, talora invece si presenta in maniera più seria e progredisce fino ad impedire anche l’alimentazione, nel qual caso il paziente viene adeguatamente nutrito e supportato per via parenterale (ossia direttamente in vena, attraverso il catetere venoso centrale).
Il più delle volte i pazienti con la mucosite inizialmente avvertono un fastidio alla bocca ed alla gola, che poi esita nella formazione di piccole lesioni ulcerative a livello della mucosa orale, della lingua, delle gengive. In rari casi queste lesioni possono divenire anche molto estese e provocare perciò uno stato soggettivamente molto invalidante, che impedisce la deglutizione.
Tutto ciò, inoltre, viene ulteriormente complicato da un altro aspetto della mucosite, la cosiddetta scialorrea: con questo termine si intende l’aumentata produzione di saliva, che si presenta più densa del normale e può essere tanto abbondante da obbligare il paziente ad espellerla all’esterno ripetutamente. La scialorrea è conseguenza di uno stato infiammatorio che, insieme alle mucose, colpisce anche le ghiandole salivari. In ogni caso la mucosite e la scialorrea sono disturbi transitori, che nel volgere di alcuni giorni (generalmente sette – dieci giorni) rapidamente migliorano e si risolvono in maniera definitiva. Un altro effetto secondario al regime di condizionamento (chemioterapia e radioterapia) è l’alopecia, ossia la perdita dei capelli.
Essa si verifica inesorabilmente tra la quinta e la decima giornata dopo il trapianto, tanto che, normalmente, al primo accenno di perdita di capelli il paziente viene sottoposto a rasatura completa della testa; ciò anche per motivi igienici e di sterilità, oltre che per motivi estetici. L’alopecia è una conseguenza sempre transitoria, legata ad un danno dei bulbi capilliferi; nell’arco di tre mesi dal trapianto infatti, generalmente tutti i pazienti tornano in possesso della propria capigliatura. Dopo circa quattro – sei settimane dal trapianto, se non sono intervenuti problemi particolari e non si è sviluppata una reazione acuta del trapianto verso l’ospite di grado avanzato, generalmente il paziente può essere dimesso e tornare a casa.
Ovviamente il momento della dimissione è molto variabile; di norma gli allotrapianti richiedono un’ospedalizzazione più prolungata degli autotrapianti, sia perché l’attecchimento di un midollo non appartenente all’organismo del paziente richiede in genere più giorni dell’attecchimento di un midollo autologo, sia per il rischio di sviluppare una reazione del trapianto verso l’ospite, che richiede un’adeguata terapia. Purtroppo talora può accadere che un paziente debba rimanere in ospedale più a lungo, per essere sottoposto ad ulteriori terapie di eventuali complicanze o perché semplicemente abbia bisogno di un tempo maggiore per raggiungere valori emocromocitometrici (in particolare il valore delle piastrine) sufficienti a garantirne la sicurezza a casa.


Cosa si intende per effetto antileucemico del trapianto (Graft Versus Leukemia o GVL)?

Come già anticipato, il midollo osseo del donatore contiene alcune cellule mature (linfociti T) che sono responsabili di una complicazione nota come malattia del trapianto verso l’ospite (GVHD); un sottogruppo di questo tipo di cellule, d’altra parte, possiede un’attività antileucemica, e perciò contribuisce a combattere le cellule cancerose. Tale effetto benefico si aggiunge a quello principalmente svolto dalla chemio-radioterapia ed è conosciuto con il nome di “Graft Versus Leukemia” (GVL), ossia “effetto antileucemico del trapianto”.
Attualmente uno dei principali obiettivi della ricerca è quello di riuscire ad individuare questo sottogruppo di linfociti e separarlo dal resto delle cellule T; in un futuro non troppo lontano ciò permetterà di trattare il midollo del donatore in laboratorio in modo da eliminare le cellule che causano la malattia del trapianto verso l’ospite conservando però le cellule che possiedono un importante effetto antileucemico.
In altre parole sarà possibile separare la GVL dalla GVHD, conservando gli effetti positivi legati alla prima ed eliminando le spiacevoli conseguenze della seconda.


Cosa sono i fattori di crescita e a cosa servono?

I fattori di crescita sono sostanze la cui principale funzione è quella di stimolare il midollo osseo a produrre più cellule.
Essi vengono prodotti dal nostro organismo per regolare la funzione emopoietica del midollo. Grazie alla ricerca oggi i fattori di crescita riescono ad essere sintetizzati in laboratorio e fanno parte dei prodotti farmaceutici di normale utilizzo clinico; somministrati a pazienti che, a causa della chemioterapia, vanno incontro ad una diminuzione temporanea dei globuli bianchi, essi abbreviano in maniera significativa il tempo necessario alla ripresa della funzione midollare e perciò alla risalita dei globuli bianchi stessi. Come diretta conseguenza, i fattori di crescita diminuiscono i giorni in cui più alto è il rischio di contrarre infezioni.
Somministrati nei giorni successivi al trapianto, essi abbreviano i giorni di aplasia riducendo perciò i giorni di ricovero ed accelerando la dimissione dall’ospedale. I principali fattori di crescita sono il G-CSF (Granulocyte Colony Stimulating Factor – Fattore stimolante le colonie di granulociti) ed il GM-CSF (Granulocyte / Macrophage Colony Stimulating Factor – Fattore stimolante le colonie di granulociti e macrofagi).
Una seconda funzione molto importante dei fattori di crescita, come già anticipato, è quella di mobilizzare le cellule staminali midollari, ossia di far aumentare nel circolo periferico queste cellule progenitrici di tutti i globuli bianchi, in modo da permetterne la raccolta con le procedure di leucoaferesi precedentemente spiegate.


Vi sono effetti secondari legati al trapianto? Quali?

Un importante effetto secondario del trapianto di midollo osseo è la sterilità, ossia l’impossibilità di generare prole.
E’ questa una conseguenza legata ancora una volta alla chemioterapia ed alla radioterapia che precedono il trapianto. Il regime di condizionamento, infatti, danneggia in modo purtroppo quasi sempre irreversibile le cellule ovariche e testicolari deputate alla produzione delle cellule germinali, cioè le cellule uovo nella donna e gli spermatozoi nell’uomo. E’ molto importante però sottolineare il fatto che le funzioni sessuali non vengono assolutamente alterate. Sterilità non significa né impotenza né frigidità!
I farmaci antitumorali e le radiazioni somministrate durante il regime di condizionamento sono molto potenti e in una certa misura possono arrecare danni anche ad altri organi; generalmente questi ultimi sono danni reversibili, ma talora, a distanza di tempo, possono condurre ad un indebolimento funzionale degli organi interessati; ciò vale soprattutto per il cuore, i polmoni ed il fegato; la maggior parte delle volte, però, eventuali esiti a distanza di tempo interessano organi già in precedenza indeboliti e perciò più soggetti a subire danni di una certa importanza, mentre di norma è proprio con il passare del tempo che pian piano l’organismo riacquista il suo assetto originale e ritrova il suo miglior equilibrio.


Come ci si può iscrivere alla banca dati dei donatori di midollo osseo?

Tra le migliaia di persone che possono beneficiare di un trapianto di midollo circa il 70% non ha un donatore compatibile fra i propri familiari. Questi pazienti hanno bisogno di trovare un donatore non familiare attraverso le banche dati.
I requisiti per essere un donatore di midollo osseo sono pochi: avere un’età compresa tra i 18 anni e 55 e godere di buona salute generale.
Per iscriversi alla banca dati, e cioè al Registro Italiano Donatori di Midollo Osseo è sufficiente recarsi al centro trasfusionale ospedaliero più vicino e sottoporsi ad un piccolo prelievo di sangue (qualsiasi informazione a questo riguardo può essere ottenuta telefonando all’Associazione Donatori Midollo Osseo – ADMO – Via Aldini 72, Milano. Tel. 02/39000855).
Su questo sangue (pochi millilitri) vengono determinate le caratteristiche di gruppo e viene tipizzato l’HLA: i risultati confluiscono in un computer facente capo al Registro sopraddetto e possono in questo modo essere a disposizione di tutti i pazienti che sono alla ricerca di un donatore. Naturalmente la possibilità di essere prima o poi chiamati alla vera e propria donazione di midollo è molto piccola, ma, qualora ciò avvenga, ferma restando la libertà individuale di ritirare il proprio consenso, rappresenta un’esperienza ed un’occasione unica, che vale comunque la pena di vivere.


Quali sono i progressi che si sono verificati negli ultimi anni nel campo dei trapianti di midollo?

Negli anni più’ recenti, e soprattutto nell’ultima decade, si sono registrati enormi progressi sia nello sviluppo di nuove terapie di condizionamento al trapianto, sia nelle terapie cosiddette di supporto, sia nel riconoscimento degli effetti tardivi post-trapianto. Tutto questo ha permesso un netto incremento di sopravvivenza ma anche della qualità della vita del paziente trapiantato.
Lo studio della compatibilità HLA è stato completamente rivoluzionato dall’applicazione di tecniche molecolari; per tale ragione l’identità donatore- ricevente è adesso molto più accurata rispetto a quanto avveniva anche soltanto 5 anni fa; ciò consente di escludere errori nella determinazione degli alleli HLA più importanti, sia nel caso di donatori famigliari sia soprattutto nel caso di donatori da registro, permettendo così la selezione di donatori che abbiano tutti i requisiti attualmente ritenuti fondamentali per una buona riuscita del trapianto. Tra i progressi degli ultimi anni vanno inoltre annoverati lo sviluppo di nuovi antibiotici antibatterici ed antivirali e di nuovi farmaci anti-rigetto, molti dei quali sono già disponibili in commercio ed in corso di valutazione per la terapia e la profilassi della malattia trapianto verso ospite.
La scoperta forse più rivoluzionaria di questi anni è comunque quella dei cosiddetti “linfociti del donatore”: si è visto infatti che pazienti sottoposti a trapianto di midollo ed in iniziale recidiva, possono essere trattati con l’infusione di linfociti prelevati dal donatore i quali, in una certa percentuale dei casi, inducono una rapida e durevole scomparsa della malattia. La trasfusione di “linfociti del donatore”, sebbene comporti qualche rischio (soprattutto legato alla possibile comparsa della GVHD), ha ulteriormente aumentato le possibilità di guarigione, soprattutto in alcune patologie come la leucemia mieloide cronica, dove l’effetto anti-leucemico dei linfociti é maggiore.


Per il trapianto è possibile utilizzare anche il sangue placentare?

All’inizio degli anni ’90 si è scoperto che nella placenta di neonati a termine è contenuto un certo numero di cellule staminali emopoietiche. Attraverso metodiche molto semplici è possibile, subito dopo il parto, prelevare dalla placenta un certo quantitativo di sangue (generalmente 80-120 ml) contenente cellule staminali emopoietiche da utilizzare come fonte di donazione per trapianto di midollo osseo, senza che ciò comporti alcun rischio né per il neonato né per la madre.
In pratica, subito dopo il parto viene inserito un ago all’interno del cordone ombelicale, che nel frattempo è già stato chiuso (ma non ancora tagliato), e attraverso di esso viene aspirato il sangue residuo placentare. Questo sangue viene accuratamente esaminato, viene esclusa la contaminazione batterica o virale, e le cellule staminali in esso contenute vengono contate e tipizzate per quanto riguarda l’HLA. Espletate queste operazioni esso viene posto in appositi contenitori e congelato in azoto liquido, dove rimane a disposizione per gli anni a venire, costituendo in tal modo una fonte alternativa di cellule utilizzabili per trapianto di midollo osseo.
La tipizzazione HLA delle cellule staminali in esso contenute viene inserita in un apposito registro, consultabile dai Centri accreditati di tutto il mondo.
Il numero delle cellule staminali contenute nel sangue placentare è tuttavia limitato e non consente un facile attecchimento in pazienti adulti; pertanto attualmente il sangue placentare costituisce una sorgente di cellule utilizzabili a fini trapiantologici preferenzialmente (ma non esclusivamente) per soggetti in età pediatrica. L’enorme vantaggio fornito da questa metodica è soprattutto legato al fatto che vengono utilizzate cellule che altrimenti verrebbero eliminate come materiale di scarto (insieme alla placenta), consentendo pertanto la costituzione di apposite banche in cui il numero delle unità a disposizione cresce in maniera continua, aumentando così la possibilità per i pazienti di trovare una fonte di cellule staminali ad essi totalmente compatibile, spesso in tempi brevissimi.


Visti i recenti progressi, è possibile utilizzare per il trapianto anche donatori non HLA-identici?

Tra i grandi progressi degli ultimi anni sono da annoverare quelli compiuti nei cosiddetti trapianti “mis-matched” o “aploidentici”; si tratta di trapianti che possono essere eseguiti da donatori HLA non identici al paziente, più frequentemente famigliari parzialmente identici. A tal fine vengono utilizzate le cellule staminali del sangue periferico, da cui vengono completamente rimossi i linfociti, che sarebbero altrimenti responsabili di una GVHD molto severa.
Questi tipi di trapianto trovano indicazione in soggetti che non abbiano un famigliare HLA identico, in cui la ricerca di un donatore da registro sembri difficoltosa o quando siano in uno stato di malattia ad alto rischio di ricaduta precoce. Nonostante si tratti di procedure terapeutiche particolarmente complesse ed ancora problematiche per l’incidenza elevata di complicanze infettive, si stanno avendo risultati sempre più incoraggianti, soprattutto nelle leucemie mieloidi.


Che cos’é il “mini-trapianto”?

Per “mini-trapianto” o trapianto “lite” s’intende un trapianto di midollo o di cellule staminali in cui viene utilizzata una terapia di condizionamento non mieloablativa, ossia a dosi minori rispetto al condizionamento classico, tali da non eliminare in maniera completa il midollo osseo del paziente. Questo tipo di trattamento, la cui tossicità è evidentemente limitata, in presenza di farmaci anti rigetto consente un rapido attecchimento delle cellule staminali del donatore. In pratica nel paziente si crea una situazione definita come “chimerismo misto”, ossia la convivenza di cellule emopoietiche del donatore con cellule emopoietiche del paziente stesso, sopravvissute alla chemioterapia di condizionamento.
Il minitrapianto sembra particolarmente indicato in soggetti di età superiore ai 60 anni o particolarmente debilitati, che non potrebbero sopportare la tossicità di una classica terapia di condizionamento; grazie ad esso è oggi realisticamente possibile considerare l’opzione trapiantologica anche in soggetti per i quali fino a cinque anni fa tale approccio terapeutico non sarebbe stato neanche proponibile. Tuttavia anche questo trattamento non è esente da rischi, in particolare legati alla possibile insorgenza della malattia trapianto verso ospite e alla transitorietà dell’attecchimento delle cellule trapiantate.
Esso infatti viene generalmente perso nel giro di qualche mese, a meno che, ad intervalli regolari, non si proceda all’infusione di linfociti del donatore; questi ultimi riconoscono le cellule del midollo appartenenti al ricevente come cellule estranee, e possono contribuire alla loro graduale e completa eliminazione.
In tal modo le infusioni di linfociti del donatore effettuate nelle fasi successive al “mini-trapianto” permettono di consolidare l’attecchiamento delle cellule emopoietiche del donatore e di allontanare il rischio di una recidiva. Questo approccio trapiantologico è ancora molto sperimentale ma ha permesso di ridurre notevolmente l’incidenza e la gravità dei maggiori effetti collaterali legati al trapianto di midollo osseo, soprattutto di tipo infettivo e di tipo tossico.. Utilizzando nuovi farmaci anti rigetto o diverse combinazioni chemioterapiche, si inizia oggi ad intravedere un’indicazione al minitrapianto in ogni fascia d’età ed in tutte le patologie. Se pensate che questa guida Vi sia stata utile supportateci con le vostre offerte.